Le politiche ambientali e l’industria italiana

Pubblichiamo l’intervista rilasciata da Andrea Bianchi, Direttore delle Politiche industriali di Confindustria, in occasione del workshop organizzato da EPDItaly lo scorso 27 settembre a Milano.

Quali vantaggi ha oggi un’azienda industriale nell’offrire al mercato prodotti sostenibili e rispettosi dell’ambiente?

L’industria italiana è molto sensibile al tema della sostenibilità ambientale e può già contare su un’esperienza consolidata, che guarda ormai da tempo al tema come un’opportunità e non come un vincolo alla crescita. La sostenibilità ambientale, infatti, gioca un ruolo strategico non solo per migliorare le condizioni di vita della collettività ma anche per rendere più competitive le imprese, ad esempio, attraverso il minor utilizzo delle materie prime, una maggiore efficienza nel processo produttivo, una minore generazione di rifiuti e una positiva percezione da parte del mercato e dei consumatori.

Una ricerca condotta da Nielsen Global Survey of Corporate Social Responsability and Sustainability ha rilevato che in Italia, nel 2015, i consumatori disposti a pagare di più per brand sostenibili sono il 52%, in sensibile crescita dal 44% del 2013 e dal 45% del 2014.

Va tuttavia osservato che per avere effetti positivi dalla sostenibilità ambientale non sono sufficienti i comportamenti delle imprese, ma è necessaria un’azione di sistema. Anzitutto, la sostenibilità richiede l’avanzamento tecnologico, che dipende dagli investimenti in ricerca e sviluppo, per assicurare attività produttive competitive e obiettivi ambientali sempre più performanti. Inoltre, in diversi ambiti l’adozione di comportamenti virtuosi sotto il profilo della sostenibilità ambientale può essere condizionata dalla sussistenza o meno di misure di supporto o incentivazione pubblici, senza i quali si rischia l’antieconomicità.

In questo contesto, le politiche ambientali devono costituire un pezzo fondamentale delle politiche industriali. Il punto è come e a che livello adottare e attuare tali politiche. Partiamo dall’analisi della distribuzione dell’industria a livello globale. Da una parte, i Paesi aderenti al G7, a storica vocazione manifatturiera, e dall’altra i Paesi che fino a qualche anno fa venivano considerati in via di sviluppo e che oggi rappresentano una realtà con cui competere, identificabili sostanzialmente nell’area del Sud-Est Asiatico. All’interno dell’area G7, una ulteriore suddivisione appare doverosa visti anche i recenti sviluppi, tra il blocco europeo e l’amministrazione statunitense. Se mettiamo a confronto queste tre piattaforme industriali – USA, Sud-Est Asiatico, Europa – cogliamo subito delle profonde differenze nel modo in cui i Governi si relazionano con l’industria, in altri termini se e in che modo vengono messe in atto politiche industriali in campo ambientale. Quello che emerge è che rispetto a una impostazione più liberista, tipica degli statunitensi, e una più dirigista, che caratterizza paesi del Sud-Est asiatico (prima su tutti la Cina), l’Europa si colloca a metà fra i due approcci, fornendo degli indirizzi a livello UE, accompagnati in diversi casi da stanziamenti di risorse, che debbono però poi essere calati e implementati concretamente a livello di singoli Stati Membri.

Si pensi ad esempio al caso della spesa per Ricerca e Innovazione: il Piano Horizon 2020 ha destinato, a livello UE nel periodo 2014-2020 un totale di circa 80 miliardi di euro, che diviso su base annuo (circa 11 mld di euro) non rappresenta neanche una unità percentuale del PIL europeo. Per questo motivo, i singoli stati membri hanno ritenuto opportuno mettere in piedi anche dei programmi di investimento e sostegno all’industria su base nazionale, come nel caso italiano di Industria 4.0.

Tale impostazione la si ritrova anche quando si parla di politiche ambientali. L’Europa ha ormai da decenni un approccio votato alla definizione di obiettivi sempre più sfidanti (basti pensare a quelli in materia climatica o di gestione di rifiuti al 2030), stanziando risorse a livello europeo che, nel caso del programma Horizon verranno solo leggermente rivisti al rialzo: si passerà dagli 80 miliardi del periodo 2014-2020 a 96 miliardi nei successivi 7 anni.

Tale approccio dovrà necessariamente essere confrontato con quello delle altre due piattaforme industriali che, soprattutto nel caso della Cina, si apprestano ad assumere la leadership in tale campo.

Dalle ultime notizie disponibili, nell’ultimo piano quinquennale cinese comunicato a inizio 2016, che stabilisce la direzione dell’economia e la destinazione degli investimenti per i successivi cinque anni, i temi ambientali sono stati al centro della programmazione.

Il Governo cinese ha stanziato investimenti da qua al 2020 per circa 300 miliardi di dollari all’anno, per dare un termine di paragone si tratta all’incirca di un conferimento nel settore pari al PIL danese ogni anno. Come conseguenza l’investimento totale nel tema della protezione ambientale arriverà a rappresentare circa il 2.7 del PIL cinese stimato nel 2020.

In conclusione, la sostenibilità ambientale può senz’altro rappresentare un vantaggio per le imprese e per le collettività, ma affinché ciò avvenga è sempre più è necessaria un’azione di supporto anche da parte dei Governi, sia a livello europeo che a livello di singoli Stati membri.

E in quale misura la certificazione di sostenibilità di prodotto ne costituisce un valore aggiunto?

Partiamo dalla considerazione che nel continente europeo, quindi anche nel relativo mercato, la sensibilità ambientale, complice anche l’elevata antropizzazione, è molto elevata.

A livello aziendale, quindi, il possesso di una certificazione di sostenibilità di prodotto rappresenta senz’altro un valore aggiunto per l’apprezzamento dei consumatori.

Ma oggi il valore aggiunto che può dare la certificazione non riguarda solo i rapporti tra imprese e consumatori, ma anche i rapporti tra imprese e pubbliche amministrazioni. Il riferimento è alla materia degli appalti “verdi”. Pensate che l’Italia è al primo posto in Europa e terza nel mondo dopo Cina e Giappone per numero di aziende – oltre 22.000 – che applicano il green public procurement (Gpp): ossia, le norme europee in materia di appalti verdi. Tale tipologia di appalti si basa sia sui cd. criteri ambientali minimi (CAM) sia sulle certificazioni o etichette ambientali.

Ora considerato che quello degli appalti pubblici è un mercato che in Europa genera una spesa per opere, beni e servizi di circa 1.800 miliardi di euro l’anno, circa il 14% del Pil europeo; in Italia nel 2016, gli appalti pubblici hanno avuto un valore di circa 111,5 miliardi, sono evidenti i vantaggi che le certificazioni ambientali di prodotto possono giocare anche nell’intercettare commesse pubbliche, sia a livello europeo che nazionale.

A livello di sistema, infine, le certificazioni ambientali rappresentano un efficace strumento di politica industriale in grado di orientare i modelli di produzione e, quindi, di consumo verso la sostenibilità, in alternativa a quelle che sono le politiche basate su divieti, vincoli e limiti, a volte anche assai stringenti, ma incapaci di realizzare una effettiva tutela ambientale e spesso dannosi unicamente per l’economia.

 

L’applicazione dell’EPD ai prodotti, oltre a fornire un valore commerciale grazie alla certificazione, richiede che si faccia un’analisi approfondita del processo produttivo per lo specifico prodotto. In questo modo si determinano spesso vantaggi economici per effetto di una razionalizzazione e una migliore e più attenta gestione dei processi. Qual è oggi il livello di consapevolezza di questo valore aggiunto?

La Dichiarazione Ambientale di Prodotto, meglio nota come EPD (Environmental Product Declaration) è lo strumento pensato per migliorare la comunicazione ambientale fra produttori da un lato (business to business) e distributori e consumatori, dall’altro (business to consumers). L’EPD consente alle imprese anche di comunicare le proprie strategie e l’impegno ad orientare la produzione nel rispetto dell’ambiente valorizzando il prodotto stesso.

L’attenzione verso le certificazioni EPD da parte delle aziende è aumentata considerevolmente negli ultimi anni, anche grazie all’intervento del legislatore. Ad esempio il rispetto dei criteri ambientali minimi (CAM) negli appalti pubblici, che è divenuto obbligatorio, può essere provato appunto con l’EPD. Una sempre maggiore attenzione del decisore pubblico a tale strumento, unita ai vantaggi che la certificazione assume nell’ambito dell’ottimizzazione dei processi produttivi, porta a credere che le aziende considerino tale strumento come un importante valore aggiunto per promuovere i loro prodotti e favorire le loro attività.

 

Con la nascita di EPDItaly e grazie ad accordi con alcuni dei principali Program Operator internazionali l’EPD certificata in Italia è riconosciuta anche in altri Paesi, evitando la ripetizione di prove e verifiche. In quale misura questo costituisce un vantaggio e un’opportunità per le aziende italiane?

L’EPD, caratterizzandosi, tra l’altro, per il suo utilizzo sia a livello nazionale che internazionale, si conferma uno strumento positivo per le aziende che ne sono in possesso, per meglio muoversi in un mercato sempre più attento alle tematiche ambientali.

E’ emblematico inoltre notare come l’industria tutta, nell’ambito del mercato globale, appaia unita nel perseguimento dei medesimi obiettivi e coesa nel trovare strategie e approcci innovativi al tema della sostenibilità. E’ un tema questo sul quale dovremmo riflettere, nella misura in cui, viceversa, i vari Governi, spesso, non si dimostrano in grado di rispondere efficacemente e in maniera unitaria a quelle che sono le sfide ambientali di oggi sulle quali, vale la pena di ricordare, si può vincere solo in un’ottica globale. Evidentemente, in un tale contesto dove tali processi sono idonei a garantire contenuti informativi qualificati per realizzare obiettivi di tutela dell’ambiente, va vista con favore EPDITALY, nella misura in cui consente alle nostre imprese di essere sempre più competitive e forti, alla pari con le altre realtà produttive, consentendo loro, contestualmente, di muoversi in contesti armonizzati e semplificati da oneri legati a verifiche e controlli.